Il monaco che vendette la sua Ferrari

Il monaco che vendette la sua Ferrari. Una favola spirituale di Robin S. Sharma.

«Un’affascinante storia che insegna e incanta al tempo stesso.» Paulo Coelho


La prefazione e il primo capitolo del libro più noto di Robin S. Sharma. Una lettura che non può mancare alla tua libreria. Ps. Video riassunto di Luca Mazzucchelli.

Ciao, sono Marco Venturi e aiuto le persone nello sviluppo personale in tempi brevi con articoli, podcast, ebook e audio. Evitando quindi anni di tentativi fallimentari e rinunce nell’essere più sani, efficaci e liberi (sopratutto da se stessi) con il metodo delle mappe mentali.


Il monaco che vendette la sua Ferrari

Trama

Julian Mantle è un avvocato di grido, potente, ammirato, ma anche incalzato dallo stress, dal bisogno di nuove esperienze e da uno strisciante sentimento d’insoddisfazione. Quando un attacco cardiaco lo costringe a fermarsi, la sua vita subisce una svolta: Julian lascia tutto compresa la sua amata Ferrari, simbolo del suo successo e parte per l’Himalaya.


Quando torna è un altro uomo: vitale, saggio, libero, felice. É un uomo nuovo, che ha scoperto un segreto e che vuole condividerlo col mondo… Il monaco che vendette la sua Ferrari è un’affascinante parabola sulla scelta cui si trovano di fronte gli uomini e le donne che ogni giorno si sentono soffocati dalla fretta, dagli impegni, dal bisogno di senso.


Un romanzo che racconta quella sintesi di saggezza orientale e di regole occidentali per la riuscita personale che sono alla base della ricetta di Robin Sharma per una nuova vita consapevole e felice.

Robin S. Sharma, avvocato americano, è un’autorità internazionale di strategie di leadership e sviluppo personale. É autore di numerosi best seller motivazionali, tra i quali Vivere alla grande, apparso nelle edizioni TEA.


Il monaco che vendette la sua Ferrari – Citazione


Ritengo che la vita non sia una tremula candela, ma una fiaccola che adesso è in mia mano, e cercherò di tenere accesa il più a lungo possibile per consegnarla poi alle generazioni future. George Bernard Shaw


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Capitolo 1
IL CAMPANELLO D’ALLARME

Si accasciò a terra proprio al centro di un’affollata aula di tribunale.

Era uno degli avvocati più illustri d’America, celebre per i vestiti italiani da tremila dollari che fasciavano il suo fisico robusto non meno che per il prestigioso palmarès di successi legali.


Restai lì come paralizzato, incapace di parlare o di muovermi. Il grande Julian Mantle, colpito da un infarto, si agitava sul pavimento come un neonato indifeso, sudando, contorcendosi e tremando convulsamente. Da quel momento, tutto sembrò muoversi al rallentatore.


«Oh, santo Cielo, Julian si sente male!» gridò la sua segretaria, con una folgorante interpretazione emotiva dell’evidenza. La giudice sembrava in preda al panico, e mormorò qualcosa al telefono privato che le avevano installato per le emergenze.


Quanto a me, non riuscii a fare altro che ripetere mentalmente la litania: Ti prego, vecchio stupido, non morire. É troppo presto per andartene. Non meriti di finire così. L’usciere che fino a un attimo prima sembrava impagliato con un palo nella schiena entrò in azione praticando un massaggio cardiaco all’eroe forense caduto.


La segretaria, china al fianco di Julian, con i riccioli biondi che ricadevano sul viso paonazzo di lui, gli sussurrava parole di conforto… che evidentemente lui non sentiva. Conoscevo Julian da diciassette anni. Ci eravamo incontrati per la prima volta quando ero ancora uno studentello assunto da un suo socio come praticante estivo.


All’epoca era proprio sulla cresta dell’onda, un avvocato brillante, audace e fascinoso con malcelati sogni di grandezza: la stella nascente del suo studio legale, un principe del foro in pectore. Ricordo ancora una sera in cui lavorai fino a tardi, e alla fine, passando accanto al suo regale ufficio, sbirciai una citazione incorniciata sopra la scrivania di quercia.


Era di Winston Churchill, e la diceva lunga sul tipo d’uomo che era Julian: Sono sicuro che in questo giorno noi siamo padroni del nostro destino, che il compito che ci è stato affidato non è superiore alle nostre capacità, che le sofferenze e le insidie che comporta non trascendono i nostri mezzi.


Se avremo fede nella nostra causa e un’indomita volontà di vittoria, la vittoria non ci sarà negata.

Questi principi, Julian li metteva in pratica. Era forte, caparbio e disposto a lavorare diciotto ore al giorno per conseguire quel successo che riteneva essere nel suo destino.


Bisogna aggiungere che suo nonno era stato un senatore molto in vista, e suo padre un autorevolissimo giudice della Corte Federale: insomma, proveniva da una famiglia eminente, e sulle sue spalle vestite da giacche di Armani pesavano ingenti aspettative.


Con tutto questo, era stato lui l’artefice delle proprie fortune. Gli piaceva far le cose a modo suo… e adorava dare spettacolo. Lo stile anticonformista con cui gestiva i processi gli era valso le prime pagine dei giornali. I ricchi e famosi facevano la coda per essere assistiti da lui quando avevano bisogno di un formidabile stratega dal piglio aggressivo.

Non meno note, e chiacchierate, erano le sue attività extra-professionali. Le cene ai ristoranti più raffinati della città in compagnia di top-model mozzafiato, o le omeriche bevute con una chiassosa cricca di broker che lui chiamava la sua «squadra di demolizione», divennero leggendarie.


Ancora non riuscivo a credere che mi avesse chiamato a lavorare con lui al sensazionale caso d’omicidio che stava dibattendo in quell’inizio di estate. D’accordo, mi ero laureato a Harvard, la sua università: ma non ero certo il praticante più promettente dello studio, e dal mio albero genealogico non stillava una sola goccia di sangue blu.


Mio padre, dopo un periodo di ferma nei marines, aveva passato tutta la vita a fare la guardia giurata in una banca. Mia madre veniva addirittura dal brutale Bronx. Eppure mi scelse fra tutti gli altri disperati contendenti al posto di galoppino in quello che diventò famoso come «il padre di tutti i processi per omicidio», spiegando che gli piaceva la mia «fame di successo».


Naturalmente vincemmo, e il manager che era stato accusato di avere barbaramente assassinato la moglie ritornò un uomo libero… rimorso permettendo. Quell’estate imparai una cosa fondamentale, molto più importante di una lezione su come si solleva un ragionevole dubbio dove non ne esistono… questo, dovrebbe saperlo fare qualunque avvocato che si rispetti.


No: appresi i fondamenti della psicologia della vittoria ed ebbi la rara occasione di vedere in azione un maestro. Cercai di assorbire tutto come una spugna. Su invito di Julian mi fermai allo studio come associato, e in breve nacque tra noi una solida amicizia.


Devo dire che lavorare con lui non era semplice: la posizione di allievo era spesso frustrante, e più di una volta i nostri dissensi sfociarono in veri scontri, con polemiche e grida fino a tarda sera. O era come diceva lui, o niente. Si credeva infallibile, ma sotto quella dura scorza era anche capace di affetti sinceri.


Benché indaffaratissimo, non dimenticava mai di chiedermi di Jenny, la ragazza che continuavo a chiamare «la mia sposina» anche se ci eravamo sposati ancor prima di andare ad Harvard….


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Chi Sono

Sono Marco Venturi. Docente, ricercatore e imprenditore online.


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